Recensione di Due giorni, una notte | Il solito rigore dei Dardenne, ma più schematico
Recensione di Due giorni, una notte: I fratelli Dardenne pedinano una Marion Cotillard vittima della crisi e in fuga dalla depressione. Il film gode della solita asciuttezza formale dei cineasti belgi, ma risente anche di una sceneggiatura schematica
Il rigore dei Dardenne che soccombe alla meccanicità di uno schema? Può essere, nella rigidità di uno script che non permette di andare oltre i vari incontri della protagonista Marion Cotillard, qui nel ruolo di una donna scelta come vittima sacrificale dal proprio luogo di lavoro: dopo il weekend, i suoi colleghi dovranno decidere se farla licenziare o se rinunciare al bonus di 1000 euro previsto dal datore; così, con pochissime ore contate, la vediamo vagare da una casa all'altra come un'ambulante porta a porta; l'intenzione è di convincere ogni singolo collega a rinunciare al bonus, affinché lei possa continuare a lavorare. Sullo sfondo, i dilemmi morali di ognuno di noi che viviamo nel caos della crisi economica.
Una piccola storia tanto semplice quanto circolare che in qualche modo rinchiude il cinema dei fratelli belgi in una strada che non permette diramazioni, tanto è concisa e programmatica. Ogni nuovo incontro della protagonista, più che essere una scoperta, si riduce ad essere una casella da barrare con un SI / NO / FORSE, in una sorta di countdown per sapere quanti colleghi riuscirà a convincere a rinunciare al bonus. I personaggi – tutti – vengono sacrificati, le possibili evocazioni tappate sul nascere (si veda la scena di suicidio, praticamente inutile ai fini della narrazione), forse indecisi se essere un film di denuncia sociale oppure un tardivo bildungsroman, rimanendo dunque incompiuto su entrambi i fronti.
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Un film minore? Decisamente si, ma da apprezzare c'è il rigore formale di due cineasti la cui sicurezza dietro la macchina da presa rimane comunque intangibile, così come la precisione e il taglio millimetrico del montaggio nel condensare la parabola in 90 fluidissimi minuti, complice una Cotillard che riesce a piangere con emozione a comando, talmente brava e carismatica è. In Italia un film così sarebbe stato trasformato in un drammone isterico con Margherita Buy e Valerio Mastandrea, ci sarebbero stati tanti piatti che volavano e soprattutto molta più fastidiosa retorica ricattatoria. L'asciuttezza rimane invece l'arma migliore dei Dardenne, che pur trovandosi in un film monco e difettoso, sono riusciti a ritagliare, tra uno scorcio e l'altro, dei momenti d'intimità dove la disperazione implode piuttosto che essere strillata. Può bastare? A voi la scelta.
Voto della redazione:
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