Recensione di Escobar: Paradise Lost | Un Del Toro sulfureo per una caccia spietata
Recensione di Escobar: Paradise Lost di Andrea Di Stefano, con Benicio Del Toro e Josh Hutcherson: un thriller mosso da una nebulosa ambiguità, tra interpretazioni impeccabili e una caccia all'uomo avvolgente
Benicio Del Toro: è Il re della cocaina in Escobar: Paradise Lost di Andrea Di Stefano, un ritratto mascherato da action che proprio per questo riesce a funzionare.
Paradise Lost non è un biopic: la resa tattica (e lo sterminio della maggior parte dei suoi uomini) del trafficante del 1991 è lo scenario ideale per stringere il protagonista, suo malgrado entrato nella famiglia di Escobar abbastanza da goderne i privilegi e subirne le conseguenze più estreme, in un thriller a senso unico che vede le proprie regole interne dettate dai voleri del Patrón, incarnato da un Del Toro pregno, meditabondo, trasudante quella calma agghiacciante con cui il colombiano controllava ogni cosa, dalla famiglia alla cocaina, alle "pubbliche relazioni". Intoccabile, carismatico, spietato, dominatore assoluto dalle parvenze quasi divine, avvolgente ed ambiguo: un insieme di sfumature insieme terrificante e, talvolta, buffo.
Ma è la regia di Andrea Di Stefano a far risaltare Del Toro e tutti gli altri interpreti tenendo a debita distanza le gigionerie. L’esordio dietro la macchina da presa dell’attore italiano ne dimostra tutte le ottime capacità, raggiungendo in taluni punti risultati sorprendenti. Il neoregista ha evidentemente assimilato il meglio sui set delle sue esperienze statunitensi, e si muove con sapienza nello spazio e nel tempo in una narrazione dalle immagini solide capace di ticchettare dall’inizio alla fine, evitando la maggior parte degli stereotipi geografici o culturali ed afferrando la tensione come se fosse un navigato filmmaker d’avventura e thriller, facendoci immergere a pieno nell’ambiguità del personaggio di Escobar e nel terrore crescente di Nick tanto quanto tra i suoi ipotetici turn over di idee e personalità.
Una serie di salti temporali prepara al centro nevralgico del film: una caccia all’uomo tesa e serrata, claustrofobica per premesse e realizzazione in cui ad ogni piccola svolta corrisponde un’imprevidibilità, grazie alla sensazione trasmessa di una violenza plausibile e possibile dietro ad ogni gesto o parola.
[Leggi anche: Benicio Del Toro trafficante di droga in Escobar: Paradise Lost]
Con un Josh Hutcherson devastato (e capace di far dimenticare Hunger Games in un attimo), e forte di una lunga scia di romanticismo, la componente survivor della pellicola riesce a farsi carica di senso, e l’Escobar di Del Toro autentica fonte d’adrenalina per tutta la sua durata.
Voto della redazione:
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