Recensione di Tokyo Fiancée | Love story tratta da "Né di Eva né di Adamo" di Amélie Nothomb
Recensione di Tokyo Fiancée di Stefan Liberski: In concorso nella sezione Alice nella Città del Festival di Roma 2014, la commedia romantica e di formazione di Stefan Liberski racconta un episodio di vita vissuta dell'amata scrittrice belga
La sezione Alice nella città della nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, dedicata al cinema classicamente “per ragazzi” ma foriera di stimoli e sorprese anche per un pubblico di cinefili dal palato più sopraffino, ha accolto in concorso nella settima giornata della rassegna il belga Tokyo Fiancée di Stefan Liberski, commedia romantica e di formazione, love story tra una ragazza e un ragazzo ma soprattutto tra una ragazza e il Giappone.
Amélie ha 20 anni, un amore sconfinato per il paese del Sol Levante, la sua cultura, i suoi colori sconfinati e le sue invenzioni strampalate. Il Giappone è per lei calamita di incanto a propulsione continua, sogno da rincorrere e interiorizzare, da mettere in scena su un palcoscenico ammonitore, chimera tangibile e modus vivendi (“somniandi”) in cui incarnarsi, estremamente sfuggente quanto insopprimibilmente seducente. Soprattutto, Amélie è pervasa da un’ansia di vita che la divora mentre si aggira graziosamente per le vie di Tokyo proponendosi come insegnante di francese e trovando in Rinri, suo primo e unico allievo, una dolce metà, una fonte di incalzanti evocazioni che spaziano dagli yakuza movie agli strani costumi della rigida famiglia, ma anche di tradizioni che la fanciulla si sente ingombranti addosso e una persona a sé che forse, al di là del riflesso di carne e idealizzato del suo paese dei sogni, a lei non si addice. Mentre l’ambizione sfrigolante del diventare scrittrice s’incrina davanti alla mancata ispirazione, Amélie apre gli occhi sul mondo, su se stessa, sul flusso romantico che lei e Rinri (non) si raccontano.
I volti freschi e sgargiati di Pauline Etienne e di Taichi Inoue si confondono coi colori pastello di una narrazione liquida, un po’ Jean-Pierre Jeunet un po’ videoclip dreampop, segmentata di suggestioni lunari, graziosa e in punta di piedi, che verso la metà gira a vuoto in una dilatazione – anche mentale, della protagonista – che avrebbe necessitato di qualche deciso taglio di montaggio, per poi pian piano risollevarsi con un malinconico disorientamento finale, nella consapevolezza tragica e catartica che trovare se stessi significa accettare di non esserlo ancora.
La lucidità puntuta, la tristezza sorridente e il vagabondare nitido della protagonista sono frutto della vita vissuta dalla scrittrice Amélie Nothomb, che ha raccontato la vicenda – autobiografica – nel suo sedicesimo romanzo, Né di Eva né di Adamo (2007, Voland). E la sensazione è proprio quella, di un tuffo di testa dentro un pezzo di esistenza, uno sbirciare di verità, quella che la Nothomb mette a nudo sulle pagine e quella che Liberski inscena nella volatile profondità di un film imperfetto e amabile.
Voto della redazione:
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