Arriva sugli scherm italiani un prodotto della nuova cinematografia indipendente cinese formato Chen Zhuo, a mostrare il vero volto della Cina
Reduce dai successi conquistati in Asia, arriva inaspettatamente e grazie ad un connubio tra italiani in patria ed espatriati, l'opera di esordio del regista Chen Zhuo, Song of silence. Cinese di nascita e artista di formazione, il regista offrirà da oggi al pubblico italiano una perla del nascente cinema indipendente cinese, fatto di rapporti interpersonali fragili, luci ingrigite e sigarette fumate ossessivamente.
Gianluigi Perrone, produttore esecutivo, da Pechino porta la sua scoperta nelle mani di Distribuzione Indipendente: il film di Chen Zhuo, che ha ufficialmente esordito negli schermi italiani con il FEFF 2012, è il primo prodotto delle nuove generazioni indie a mostrarsi ai teatri italiani.
L'inizio della storia è ambientato sulle rive di un fiume dello Hunan dove Jing, un'adolescente sordomuta, vive col nonno e lo zio. Il rapporto con lo zio, che è l'unico capace di entrare in contatto con i pensieri taciuti della ragazza, dopo poco non viene più tollerato dalla famiglia, che decide quindi di spedire la ragazza in città dal padre, che vive con la fidanzata. Se in principio la relazione in questa nuova convivenza forzata sembra impossibile, piano piano i silenzi delle due donne arrivano a coincidere: ad entrambe mancano le parole per raccontare quello che stanno attraversando, tra maternità mancate e genitori assenti, quella sensazione di distanza e diversità.
Se lo spettatore si lascerà trasportare dagli spunti, si troverà forse confuso da una serie di suggestioni, linee narrative a forza eccentrica, che tuttavia soccombono sempre alla spiazzante naturalezza delle storie principali. Si parla infatti di microuniversi, della vita sul fiume, di quella nei vicoli della città, si racconta del simbolismo di un acquario e di un rossetto che disegna sul vetro la complicità tra due donne. Se da una parte sembra il tentativo di dire troppo con poco, Song of Silence è in realtà parte di una lenta costruzione narrativa e dialogica propria dei registi del nuovo panorama non classificato cinese.
È così che anche la storia di Jing e della famiglia sgangherata che si ritrova, non è solo una riflessione sull'incomunicabilità, ma su quella Cina che sta di solito in secondo piano, quella fuori dalle rotte calpestate e dagli schermi dei prodotti distribuiti (in Occidente). Occhi esperti ci troveranno i silenzi di Ki-Duk o quelli di Ming Liang, ma solo perché sono tra i più conosciuti.
In realtà in questo caso si è di fronte ad una sensibilità generazionale che si confronta con quella società che corre ed è difficile da afferrare e che Chen Zhuo rappresenta a dovere. Quadri stretti stretti ad attendere le svolte emotive, simbolismi ridondanti per essere sicuri che vengano carpiti, la foschia impura e i colori raffreddati; oltre questa patina di facile cinema, c'è il tentativo di riappropriarsi del diverso e di costruire una settima arte esportabile e non soggetta né alle leggi del blockbuster mondiale né a quella censura locale.
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