Primo e unico film italiano in concorso qui al Festival di Berlino 2015, "Vergine giurata", di Laura Bispuri, si dimostra essere una pellicola interessante e coraggiosa che lascia ben sperare per il futuro artistico della regista
Era molta la curiosità nata dietro Vergine giurata, unico film italiano in concorso alla Berlinale diretto da una giovane regista qui al suo esordo in un lungometraggio. Effettivamente la pellicola di Laura Bispuri è capace di suscitare l’interesse del pubblico, pur non evitando qualche caduta di stile dovuta probabilmente all’inesperienza che caratterizza la sua ideatrice.
Prendendo le mosse dall’omonimo romanzo scritto da Elvira Dones, Vergine giurata racconta la storia di Hana, una ragazza albanese costretta a estreme limitazioni sociali a causa della comunità maschilista e retrograda in cui vive. Per riuscire a cercare una svolta nella sua vita, presta un giuramento di verginità che la metterà sullo stesso piano degli uomini. Dieci anni dopo però, la donna sentirà il bisogno di tornare indietro, di riappropriarsi della sua identità, delle sue relazioni affettive e del suo corpo.
Il corpo, per l’appunto, è il tema portante del film. Costantemente scrutato e pedinato dalla macchina da presa, l’apparato umano della bravissima Alba Rohrwacher diventa ben presto il primo vero ostacolo per la protagonista, la quale non si rispecchia più in se stessa, provando faticosamente a resistere per mostrarsi decisa e convinta nei suoi scopi (a questo proposito è funzionale e riuscito il paragone con il nuoto sincronizzato, dove fuori dal livello dell’acqua l’apparenza impone gioia e freschezza, mentre sotto gli atleti soffrono a denti stretti) ma covando dentro di sé una fragile debolezza che la farà sentire nuda e priva di difese. Ed è proprio con questa nudità che il film gioca sin dall’inizio, mostrando la Rohrwacher sempre vestita (persino negli ambienti più estremi come la piscina) sino a che il personaggio non riuscirà finalmente a tornare indietro, ad accettarsi per quello che è e a sciacquare via (letteralmente con la scena della doccia) il suo passato.
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Oltre che un ritorno al proprio corpo, Hana dovrà vedersela anche con un ritorno verso la sua terra d’origine, un’Albania aspra e cruda con cui non può non fare i conti. Amore e odio sono i sentimenti che la legano al suo Paese, una realtà dalla quale è dovuta scappare per ritrovare se stessa ma verso cui ora sente il bisogno di tornare rigenerata dalla sua esperienza (la canzone finale lo sottolinea).
Ostacolato da scelte stilistiche di richiamo autoriale un po’ troppo azzardate, da svolte narrative sbrigative e per nulla funzionali (la scena della masturbazione nel bagno è uno dei momenti più bassi della pellicola) e da un finale frettoloso e riconciliatorio, Vergine giurata rimane comunque un’opera coraggiosa che lascia ben sperare per il futuro della regista.
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