Recensione di Big Eyes di Tim Burton con Amy Adams e Christoph Waltz: con una dichiarazione d'intenti prima che di poetica, il regista sembra essersi ritrovato guardandosi con la giusta distanza
Con protagonisti Amy Adams e Christoph Waltz, Big Eyes permette a Tim Burton, dopo i picchi camp raggiunti con Dark Shadows e i ripescaggi di Frankenweenie, di dichiarare la propria visione ancor prima della propria poetica come non accadeva dai tempi di Ed Wood.
Si parte dalla necessità biografica e da uno script lineare, ma il susseguirsi canonico degli avvenimenti appare quasi fuorviante e superfluo: avvolto nel velo semitrasparente dell’apparente basso profilo, Burton fa di un materiale di partenza generalizzante ciò che gli pare, infischiandosene delle mille altre parentesi possibili.
L’esagerazione dei pastelli e il ritornare di personaggi sempre caricaturali spostano (se non ribaltano) il baricentro al di là dei frammenti storici. Basta pensare ai pochi momenti onirici: in mano ad un altro regista avrebbero risaltato, mentre qui risultano quasi tenui e in eccesso a fronte dell’atmosfera esplosa di colore abbagliante dall’inizio alla fine.
I mostri-tremendamente-umani del gotico fanno nuovamente spazio gli umani-trementamente-mostri del kitsch, scivolando su cartoline Anni Cinquanta e Sessanta, con un occhio su tutta una cultura che non può fare a meno di essere satirico, sarcastico, cinico ed al contempo ri-creativo.
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Artisti, falsità, bluff, visioni, invenzioni, esaltazioni: Big Eyes, al contempo aspro ed infatuato, annulla le gerarchie e mostra come ogni opera (o, semplicemente, ogni cosa) data in pasto ad un pubblico sia condannata alle distorsioni e ai relativismi, spezzettata dal gusto comune, dalla moda, dal costume, dai critici, dalla parzialità; con l’arte (realizzata, valutata, venduta, contraffatta, serializzata) e la realtà dissacrate alla radice e forse per questo ancor più seducenti.
Ci ritroviamo davanti alla caricatura di un’intera popolazione come in Mars attacks! e alla controparte (parzialmente) negativa di quell’elogio della bugia che era Big Fish, con la suggestionabilità di Margaret Keane e l’arroganza esuberante del marito a pareggiare l’ottimismo naif di Ed Wood, in un espandersi sbilenco e grottesco del pop, da distorcere e per distorcere, spogliato di qualsiasi seriosità.
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La vicenda incontra le aule di tribunale, ma è proprio lì che esplode la comicità e si scopre la ragion d’essere del gigioneggiare di Christoph Waltz. Amy Adams “vince”, ma solo perché ha trovato un nuovo “padrone”, passando da una manipolazione ad un’altra quasi inconsapevolmente. Entrambi fedeli alla propria natura, né scossa né giudicata: tutto è ribadito, tutto è sempre deformato dai punti di vista prima che dalla sensibilità, tutto passa attraverso innumerevoli grandi occhi, nel calderone degli stili e delle personalità deviate e devianti. E il confine tra incantevole e ridicolo, tra amabile e patetico, è sottile e stringente, se non, talvolta, inesistente.
Se il Tim Burton degli inizi è finito da tempo e quello degli ultimi anni può apparire alle soglie dell'autoparodia, Big Eyes appare infine come il necessario passo indietro che permette una visione più ampia, in grado di dare una chiave interpretativa che li unisca e li accomuni, che li accolga e li spieghi, ed insieme il la per qualcosa di nuovo.
Voto della redazione:
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