Recensione di Mia madre di Nanni Moretti con Margherita Buy: Il conflitto tra un cinema sempre più distaccato e una realtà fatta di incomunicabilità familiare che preme per essere interiorizzata. Un film in punta di piedi, pulito e prezioso
Margherita è regista, s'arrabatta sul set di un film impegnato dove il conflitto, estremamente verbalizzato, infiamma tra gli operai di una fabbrica e il nuovo proprietario. Margherita è figlia, incespica nella sala d’ospedale in cui è ricoverata sua madre, a cui la lega un rapporto in cui il conflitto è impalpabilmente sospeso nello spazio che le separa.
Un’opera di conflitti, di mancate conciliazioni interiori questa di Nanni Moretti, un ritorno intimista che ancora una volta spezza gli schemi retorici e concettuali in cui si tende a imbrigliarlo: "no", ribadisce ora come non mai, nelle parole del nuovo alter ego, “voi vi aspettate che il mio cinema interpreti la realtà, e invece io non capisco più niente”. Racconta di questo (e di molto altro), Mia madre, con un ingrandimento di prospettiva che si rivolge alle microcellule del quotidiano contrapposte alla (perché incomunicanti con la) grande macchina del cinema, che lavora con le proiezioni mentali di una grandezza fittizia; un mestiere che assume un sapore finto, un trono troppo grande, dove si è troppo soli e dove, per non perdersi occorre stare accanto alla propria maschera (come ripete Margherita ai suoi attori, senza mai venire compresa) riconoscendola e rispecchiandocisi ma senza lasciarcene sopraffare.
E poi, sovrastante e silenziosa, c'è l’esperienza della morte: in La stanza del figlio era un urlo, in Mia madre è un lungo sussurro.
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Perché è una pellicola di pulizia rigorosa, questa, dove l’onirico è presente ma non invade mai, semmai si tramuta in punta di piedi in frammenti di coscienza estroflessa, rapidi incubi, liquido amniotico che riporta Margherita nel luogo dell'infanzia, abbracciata da fantasmi caldi, mentre Nanni (che interpreta suo fratello) sta in disparte, accoglie le sue ansie, sta accanto al personaggio (di sé stesso).
Ancora, soprattutto verso la fine del film, pulsa la rottura definitiva, il conflitto di cui si prende atto con rassegnazione, una corrispondenza mancata: quella di un'arte, di un'immagine, che non ha più connessione con la realtà. La schivano gli striscioni posticci, le frasi fatte, le didascalie del copione, ma soprattutto un racconto morale che non respira l’interiorità della sua autrice, la quale abita altrove, in una figura inafferrabile per quanto è familiare. È perciò preponderante il sentimento del/della protagonista dell’essere outsider, al di fuori di quel che accade, in un rifuggere dalla consapevolezza degli eventi, causata dalla difficoltà concreta di uscire da sé, dal proprio scudo, una ritrosia all’affacciarsi alla questione essenziale, all’altro, alla carne dei sentimenti, che è propria di Margherita.
Margherita, Giovanni: nomi propri, nomi veri, in un affiancamento ai personaggi che è cifra stilistica di Moretti e che in Mia madre diventa una vicinanza di contatto in grado di fare di un film che narra lo iato spurio tra cinema e realtà, qualcosa di inesorabilmente vivo.
Voto della redazione:
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