Recensione di Mustang di Deniz Gamze Ergüven: Un esordio epidermico e folgorante che fotografa un coming of age al femminile bruciante di libertà e limpidezza
Crescere è un dannato incubo, ancor di più se sei un'orfana, hai dodici anni e vivi in un paesino turco dimenticato dal mondo in mezzo a un nulla di felci e autostrade spoglie, insieme a quattro bellissime sorelle tristi, intrappolate come te in una grande casa. Carnefici con la rassicurante maschera di familiari sono uno zio padre-padrone e una nonna soccube, entrambi a loro volta prigionieri di un carcere mentale che impone ferrei statuti e repressione del femminile. Dietro la macchina da presa di questo trascinante e sofferto romanzo di formazione ci potrebbe essere Céline Sciamma, cantrice dell'adolescenza in divenire (ritroviamo qui echi tonanti e sotterranei di Tomboy ma soprattutto di Diamante Nero), e, per certi versi, i fratelli Dardenne (e il loro Rosetta), per come il film bracca le presenze umane dolenti e i nervi scoperti che scorrono tra le inquadrature urgenti, bramose, a contatto epidermico.
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Invece Mustang è l'opera prima di una giovane attrice, Deniz Gamze Ergüven. Il suo è un esordio fulgido, di una luce piana e trasparente, limpidissima e brusca, nel filmare il germinare inquieto e incandescente di occhi e corpi acerbi che si dibattono in un campo troppo ristretto, per cui nemmeno il quadro dello schermo basta più, la mise en scène ansima e non contiene il respiro smanioso, la voglia bruciante di libertà e gli spasimi di rabbia a ondate di un branco di capelli, sorrisi, urla, muscoli tesi, raptus, movimenti mortificati nel loro infuocare dalle costrittive regole sociali e da un profondo maschilismo di cui è radicalmente impregnato l'humus sociopolitico del paese, e che inferisce colpi letali alla sua gioventù.
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C'è chi ai lacci e alle sbarre reagisce con una ribellione dispersiva quanto sperduta, chi si adatta ipnotizzata dal passionale primo amore, chi soccombe, chi si fa definitivamente e violentemente indietro. Ma pur con le atrocità di cui si fa portatore, Mustang (nome di una razza di cavalli, col significato di "indomabile") è, anche, una favola nerissima e calda, dove principesse di miseria devono sfuggire a un lupo cattivo, ma dove i principi azzurri sono azionisti senza volto, il castello una trappola (che, in un finale di rara tensione, le ragazze rivoltano a loro vantaggio, trasformandola in uno scudo difensivo), la chimera agognata è una metropoli troppo lontana e idealizzata. E se infine là fuori un aiutante si trova, è uno sconosciuto povero in canna che al massimo ti può insegnare a guidare e a metterti le scarpe. Il resto è nelle piccole mani di Lale (l'incontenibile Günes Sensoy), mani disperate e graffiate della sorte, dell'avventatezza, dell'istinto di autosopravvivenza individuale. Della quale però, in un abbraccio finale, si scioglie finalmente libero il respiro mozzato.
Voto della redazione:
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