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Autore Luca Marra :: 21 Ottobre 2014

Al festival di Roma arriva Takashi Miike: ecco il resoconto dell'incontro dove il regista ha parlato di libertà, censura e il suo segreto per fare cinema.

Takeshi Miike sul set (foto)

Takashi Miike torna a distanza di poco tempo al Festival del Cinema di Roma 2014 per una doppia, anzi tripla ragione. Il noto autore nipponico ha ricevuto dalla rassegna diretta da Marco Müller il Premio Maverick Director Award 2014, ha presentato il suo nuovo film As the Gods Will e il giorno dopo la presentazione del film, il 19 ottobre, ha incontrato nella Sala Petrassi dell'Auditorium Parco della Musica il pubblico romano per una Masterclass, una discussione sul suo cinema. Ecco il nostro racconto.

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Arriva in pantaloncini e scarpe da ginnastica e rompe subito il ghiaccio con l'ironia che lo contraddistingue: «Grazie per essere così tanti di domenica mattina, sapevo che gli italiani erano forti di notte, non sapevo anche di giorno». Rotto l'imbarazzo dei primi minuti, Miike nell'incontro moderato dai critici Giona Nazzaro e Manlio Gomarasca introduce il suo As the Gods Will, quarto film in tre anni consecutivi che presenta al Festival capitolino. Il suo ultimo lavoro è tratto da un manga incentrato sulla vita di due studenti stravolta quando l'esplosione improvvisa della testa del loro professore li costringe ad un gioco mortale senza sapere perché. «I manga sono diversi da film e tv, è concessa loro una libertà maggiore anche per scene forti. È la prima volta che questo film ha un pubblico, in Giappone ancora non è stato proiettato e sono un po' ansioso della reazione degli spettatori» dice Miike. La sala lo applaude cercando di rassicurarlo sul gradimento della pellicola, ma a dominare tutta la discussione sarà il tema della libertà.

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Un aggettivo che spessa s'accoppia col nome del cineasta nipponico, autore fra gli altri di Ichi the Killer, Dead or Alive, Audition, è 'prolifico'. A 50 anni ha diretto oltre 90 film e la sua produzione è senza sosta ma nonostante questo il regista spiega: «Secondo me gli studios devono ancora accorgersi di me. Per tanto tempo sono stato libero, senza appartenere a nessuno e, ancora oggi, ho tanta libertà  e, badate bene, il fatto che io abbia tanto lavoro può essere anche triste perché ho tante restrizioni». Nella sua lunga esperienza Miike ha incontrato progetti di tante dimensione economiche: «Non è il budget che fa un film, intendiamoci. Quando un produttore mi propone qualcosa a basso budget e io noto che lui ha occhi sinceri e attenti, valuto il progetto e magari mi viene voglia di farlo. Anzi, è proprio quando i soldi sono limitati che ci sono meno restrizioni, meno contratti da rispettare. Pure lo stile può essere una prigione, la preoccupazione di adottare sempre certi canoni per farsi riconoscere. Il segreto è essere sempre attivi e divertirsi».

Nel concetto di libertà è iscritto, per opposto, anche quello di restrizione che nel campo del cinema si traduce spesso con censura. Miike ha diversi episodi in merito e un'idea molto articolata. Un caso è quello di Imprint previsto nella collana Masters of Horror, produzione statunitense: «Mi dissero – ricorda divertito il regista – che potevo fare qualsiasi cosa col film, unico vincolo evitare le scene di penetrazione. Ma mentre giravo mi dicevano: ' ma secondo lei possiamo mai mandare in onda queste cose?'. Erano previsti 13 episodi di Masters of Horror ma ne uscirono 12 con tanto di articolo di scuse sul giornale. Insomma, si dice sempre che gli USA sono terra di Libertà ma per me è questa l'America reale». Ogni nazione però ha le sue dinamiche censorie e «in Giappone – puntualizza Miike – c'è una commissione per l'Etica dei film, ente privato formato da coloro che non hanno avuto una felice vita cinematografica e normalmente sono le loro opere il metro di censura. Ci tengo a dire però che è giusto avere la censura, è giusto proteggere i bambini da certe immagini non adatte ancora alla loro età. Le regole ci vogliono».

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Dalla Libertà si va all'identità, e quella cinematografica di Miike passa per un autore orientale diventato leggenda, come lui stesso racconta: «Con i film di Bruce Lee ho capito che cos'è l'intrattenimento vero e proprio. Lui mi ha fatto capire la potenza di un film cioè che si può vivere anche oltre la morte grazie ai film che hai fatto che hai interpretato». La sua formazione è passata anche per il cinema tricolore: «La mia generazione ha avuto grande influenza dal cinema italiano di Fellini, autore dallo splendore inimitabile, agli Spaghetti Western, un ventaglio cinematografico molto vario. Ho rispetto per gli italiani, ma quel cinema è proprio della loro intelligenza e noi giapponesi non lo possiamo rifare, li imiteremmo. Dobbiamo concentrarci su qualcosa di nostro». Ma qual è il film che più rappresenta Miike? Quando qualcuno gli rivolge il quesito lui ride: «Ecco, è arrivata la domanda che detesto. Il film che mi rappresenta di più è sempre l'ultimo che ho fatto perché è ciò che mi raffigura in quel momento».

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