Recensione di Room | Dal regista di Frank, arriva uno dei film più acclamati del 2015, fresco dell'Oscar come Migliore Attrice Protagonista a Brie Larson: la tragedia di un rapimento salvato dall'amore tra madre e figlio, con un pizzico di Platone.
“Ci sono due lati in ogni cosa” spiega Ma, interpretata dalla neo vincitrice dell'Oscar Brie Larson, a Jack, l'adorabile esordiente Jacob Tremblay: in Room, inteso come spazio filmico e fisico, c'è un interno e un esterno, un prima e un dopo, nonché un doppio punto di vista che si incontra e si scontra continuamente negli sguardi isolati dei due protagonisti reclusi.
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Scritto da Emma Donoghue, autrice del best seller da cui è tratto, con il probabile zampino dello stesso regista Lenny Abrahamson, Room tenta di riproporre la visione del mondo parziale e interrotta di Ma e Jack con porzioni della loro vita dentro e fuori la Stanza, l'unica Casa che corrisponde, soprattutto per il piccolo Jack, là nato, a un nucleo di conoscenze del reale ridotto su scala, di pochi concetti-cose - “stanza, letto, armadio, specchio“ come recita il titolo italiano del libro della Donoughue - che divengono le sole rappresentazioni dell'esistente, idee platoniche che ben si distinguono dalle immagini di pura finzione della televisione, seconda finestra sull'esterno che gli è concessa oltre al lucernaio sul soffitto, fuoco che illumina gettando luci ed ombre sui vecchi mobili della stanza.
Plasmata dalla madre demiurgo, la realtà di Jack è narrativizzata e circoscritta all'esperienza sensibile all'interno delle quattro mura, esattamente come nella caverna del mito di Platone – allegoria dichiarata anche dall'autrice e dal regista. Valicare finalmente la porta e allargare la visione significano una nuova nascita (e quasi un nuovo film) in nuovo mondo con i propri limiti, accecante per la sua complessità.
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Al di là della valenza filosofica che persegue in incognito, Abrahamson è in grado di costruire attorno ai due protagonisti, e i due attori, una sfera di tenerezza e complicità di rara delicatezza e condivisione. Room diviene lo spazio privilegiato del rapporto esclusivo tra madre e figlio, senza implicazioni morali e politiche sul legame biologico, che anzi viene qui smontato e ribaltato: “un padre è un uomo che ama”. Ecco che anche i ruoli diventano concetti archetipi e il particolare può sfiorare l'universale, come in Frank, in cui il protagonista senza volto Fassbender dava voce all'individualismo malato e virtuale della generazione dei millennial.
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Purtroppo l'integrità di Room viene più volte compromessa da scelte e svolte non troppo felici, come il rifiuto del padre William H. Macy o la verosimiglianza cedevole e accomodante del plot twist centrale; premendo incautamente sul tasto dell'accelerazione emotiva, come spesso accade nei più classici drammi familiari, lo spettatore è quasi spinto alla lacrima.
Viene da pensare che, forse, sullo sguardo di meraviglia del piccolo Jack dopo l'evasione sul quadro finalmente aperto e potenzialmente infinito del cielo – il cui impatto emotivo ricorda l'ampliamento dell'inquadratura di Mommy – si poteva meglio concludere un'opera preziosa sulle differenze empiriche e gnoseologiche del mondo, sulla vastità di ciò che ci circonda e sull'immensità delle relazioni umane.
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