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Autore Giulia Marras :: 27 Settembre 2016
Locandina di Café Society

Recensione di Café Society di Woody Allen con Jesse Eisenberg e Kristen Stewart | Se i giovani protagonisti trionfano, insieme alla fotografia di Storaro, Allen fatica ancora a tornare agli splendori, e fa della nostalgia la sua unica guida

È un po’ come se Woody Allen non avesse più nessuna intenzione di uscire dal personaggio di Owen Wilson in Midnight in Paris: nel suo recente e infinito viaggiare per il mondo e per il cinema, continua a passeggiare e a venire catapultato in epoche e luoghi lontani, pur sempre a lui congeniali, e questo movimento semplicemente guida e costituisce il suo filmare oggi. Nel suo baldanzoso vagare nel tempo, pare però che sia rimasta poca sorpresa e moderato stupore, al contrario di quanto accadeva a Gil negli incontri con gli artisti della Generazione Perduta degli anni Venti; dal passato non arriva più un’illuminazione sul presente, se non una luce nostalgica, anche se romantica e ancora totalmente innamorata del cinema.

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E in questo Café Society l'unica scrittura che sorprende, non certo il narrare di Allen sagace ma ormai stantio sulla religione e Hollywood, è quella della luce fotografata da Vittorio Storaro. Nell'esordio al digitale del regista newyorkese, il “cinefotografo” di Francis Ford Coppola e Bernardo Bertolucci, tra gli altri, ne salva l'incanto di fronte al cinema degli anni Trenta, ai ricordi dell'eleganza di Billy Wilder, Barbara Stanwyck, Greta Garbo, all'esuberanza cinica dei personaggi dietro le quinte del glamour hollywoodiano; e soprattutto Storaro poetizza i volti, i loro contorni, per non farli troppo disperdere con l'ambiente in cui in modo malinconico e fallimentare si amalgamano – i tre giovani protagonisti, Eisenberg, la Stewart e la Lively, che appaiono già alleniani collaudati, sono consci del loro destino amaro perché “la vita è una commedia scritta da un sadico” - rarefatti, come la storia d'amore che (non) vivono.

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Dopo diverse tappe europee, Allen torna finalmente nella sua Manhattan, e torna a narrare con la sua voce (almeno nella versione originale, nella versione italiana è Leo Gullotta) nella forma, da lui stesso dichiarata, di un romanzo in due parti, da Los Angeles a New York. Ma la sua è una voce (e una forma) che non abbiamo dimenticato, dai grandi capolavori come La rosa purpurea del Cairo a cui questo Café Society vorrebbe somigliare, una voce che conosciamo fin troppo bene e comincia a suonare come una cantilena. Come sempre, a funzionare meglio è la parentesi comica della casa originaria del protagonista Bobby/Eisenberg e della sua famiglia di gangster ebrei, mentre il resto scorre lateralmente come una celebrazione fumosa di un'epoca e delle sue contraddizioni. Ma se seguire ancora Woody Allen nelle sue passeggiate cinematografiche significa accontentarsi di qualche battuta ad effetto, forse è il caso di fermarsi per un po', attendere che il suo viaggio in giro per il mondo e nel tempo finisca e maturi i suoi frutti, per qualcosa di più grande e importante come ci aveva abituato e viziato fin da Prendi i soldi e scappa.

Trailer di Café Society

Voto della redazione: 

2

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