Recensione di La regola del gioco | «Alcune storie sono troppo vere per essere raccontate»
Recensione di La regola del gioco di Michael Cuesta con Jeremy Renner, Mary Elizabeth Winstead, Barry Pepper: la storia vera dell'inchiesta di Gary Webb sui traffici del governo americano narrata tra prevedibilità e convenzione
La regola del gioco (titolo italiano riassuntivo-debilitante del più intrigante Kill the Messenger originale) dipinge la vicenda di Gary Webb, interpretato da Jeremy Renner, giornalista attivo con l’inchiesta che negli anni novanta ipotizzò il coinvolgimento del governo americano e della CIA nel traffico di stupefacenti nel decennio precedente.
Come spesso accade con le ricostruzioni non ancora storicizzate ci troviamo di fronte ad una pellicola a doppio taglio: da un lato il dovere cronachistico (nonostante questo si dia spesso a forzature ed inesattezze), dall’altro quello – purtroppo secondario – di realizzare un film che possa scuotere a prescindere dai fatti narrati.
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La regola del gioco segue la strada più diffusa, quella di una pellicola acre e tesa, ritmata ma prevedibile con cui poter lanciare tutti gli input necessari in una struttura capace di inanellarli secondo gli stili e le convenzioni attuali. La scrittura e la regia soppesano il potenziale delle informazioni con un ben più gestibile attaccamento ai personaggi. Invece che porci davanti ad una raffica di dati, il regista Michael Cuesta e i produttori ci imbeccano quel che serve, riservando gli sforzi drammatici della messa in scena alla dimensione umana e professionale del protagonista in modo del tutto funzionale ed abbordabile, con scelte come ad esempio quella di soffermarsi su un sogno paterno (quello del restauro di una motocicletta insieme al figlio) piuttosto che su altro.
Tra comparsate eccellenti (Andy Garcia, Michael Sheen, Ray Liotta) e le interpretazioni nei loro limiti inappuntabili di Jeremy Renner, Mary Elizabeth Winstead e del resto del cast, Cuesta porta avanti la vicenda quasi con fretta, non sapendo bene su cosa soffermarsi, caricando con buona volontà i momenti più tragici di Webb ma senza una visione d’insieme, e – come purtroppo spesso accade in queste pellicole – è alla fine, tra cartelli conclusivi ed inserti d’epoca, che troviamo il maggior sussulto, ormai relativo alla dimensione documentale.
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Anche senza scomodare il sempreverde JFK di Oliver Stone, è chiaro quanto La regola del gioco non riesca a fare a pezzi il proprio materiale di partenza per (p)rendere una posizione o una prospettiva differente da quella collaudata dell’uomo contro il sistema, tantomeno a creare un clima di giallo o una sensazione di pericolo investigativo, in nome dell'autosufficienza del famigerato "La vera storia di".
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«Alcune storie sono troppo vere per essere raccontate» viene detto nel film, e in base a questo concetto sembra proprio il film stesso a rimanere inerme. È la volontà de La regola del gioco: accendere l’interesse per un pezzo di storia ancora fuori fuoco e tenuta all’oscuro, e ciò gli riesce. Ma il resto è solo canone.
Voto della redazione:
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