Recensione di Non essere cattivo | L'addio di Claudio Caligari è un nuovo pugno in pancia
Recensione di Non essere cattivo di Claudio Caligari con Luca Marinelli, Alessandro Borghi: tra agghiacciante e cult, comico e distruttivo, l'ultimo film del regista di "Amore tossico" sembra arrivare da un'altra dimensione. Fuori concorso Venezia 72
Claudio Caligari ci lascia con il suo terzo ed ultimo lungometraggio di finzione Non essere cattivo: interpretato dagli stupefacenti Luca Marinelli (La solitudine dei numeri primi) e Alessandro Borghi (nell’imminente Suburra di Stefano Sollima), nell’imperfetto addio del regista ritroviamo una nuova esplosione isolata di un cinema italiano appartenente ad un'altra dimensione.
Se, ovviamente, il paragone con Amore tossico rimane semplicistico, Non essere cattivo ne condivide diversi anime e scheletri: devastazione, follia, una continua pulsazione mortale, la desolazione ostiense dell’abbandono, del lasciar scivolare via la vita, in perenne bilico – un continuo schiaffo in faccia – tra agghiacciante e cult, comico e distruttivo, in cui il mescolarsi di droga, criminalità e rabbia raggiunge tratti di crudezza realista a cui il panorama nazionale ci aveva disabituati da anni.
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Siamo esattamente a metà degli Anni '90, forse l’ultimo periodo in cui la corrispondenza droga/moda poteva essere facilmente inquadrata rispetto ai giorni nostri. Essendo impossibile il gioco di alchimie che avevano reso possibile Amore tossico (come l’ambientazione contemporanea e i non-attori), Non essere cattivo è costretto a giocare con determinate limitazioni, in primis quello di ricreare i luoghi dell’Ostia del 1995, ma la sua rimane un’immersione completa, fradicia e poi metabolizzata in un mondo afferrabile più per la strada (anche oggigiorno) che al cinema e reso film. E non si tratta di feticismo, ma di un modo diverso di usare gli occhi e dell'abbandono di ogni filtro.
La puzza di realtà che Caligari ha donato alla pellicola travalica gli spunti e i riferimenti in un cinema dell’autentico capace di tremare nervoso, di incubare tutto il marcio in una sorta di sogno/incubo cinematografico che si vorrebbe nuovo e rinnovato ogni mese, per le mani di chiunque abbia l’intenzione di afferrare i fantasmi e catturarli e poi trasformarli quel poco che basta come Caligari, e che invece rimane così, prima cult ultratrentennale e adesso testamentario.
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E qualsiasi difetto, lampante o scovato che sia, non riesce ad intaccare la dimensione di questi personaggi scassati: sia nella crudezza che nelle visione allucinata, il cinema di Caligari rende lo schermo tagliente come pochi altri, in un modo tale da perdonargli ottimismi forzati (seppur sempre relativi) ed un finale dal sorriso poco adatto a questa combinazione di pugni nello stomaco di cento minuti.
Voto della redazione:
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