Recensione di Mateo: Il coming of age di Maria Gamboa evita le turbolenze e non riserva particolari scossoni, ma è un esordio che racchiude il seme di una sentita voglia di raccontare
Vincitore del Grifone di Cristallo al Giffoni Film Festival 2014, Premio della giuria al Festival Internazionale di Cartagena 2014, e il film scelto dalla Colombia per rappresentarla agli Oscar (poi non selezionato dall’Academy), l’esordio di Maria Gamboa è un coming of age che evita le turbolenze e trattiene in punta di piedi l'eruzione nel dramma; non riserva particolari scossoni né guizzi, ma racchiude il seme di una sentita e sincera voglia di raccontare.
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La camera nervosa della regista bracca amorevolmente il protagonista nella sua quotidianità, insegue, soprattutto all’inizio, suoni, odori, colori, umori, voci che si mescolano, ritraendo vividamente il vissuto di Mateo (lo spontaneo Carlos Hernández), un adolescente che vive in una povera periferia colombiana. Svagato e noncurante, il giovane viene preso sotto l’ala dallo zio, l'autoritario strozzino don Walter, ambigua guida che lo utilizza come spia all’interno del gruppo di teatro dal ragazzo frequentato, corso che si rivela propositiva illuminazione e sprone, seppur dapprima da lui percepito come un obbligo a cui aderire con circospezione e sospetto.
Di trama semplice e scarna, la pellicola si sofferma su poco altro del mondo esterno (dona spazio soprattutto alla figura dignitosa della madre di Mateo); lo sviluppo narrativo dal canto suo è piuttosto meccanico, e alla storia avrebbe giovato una sceneggiatura meglio strutturata, giacché accade tutto in maniera percepibilmente predeterminata.
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Mateo s’accende nelle scene all’aperto e in quelle corali, che respirano facendo da controcampo alla chiusura derivata dalla graduale ingombrante presenza dello zio. Allo stesso tempo, Mateo esplora, gioca, e s’innamora della bella Anita – il primo amore è colto con delicatezza e senza ridondanze.
Contro la serenità ci sono le regole severe della comunità, la coercizione del boss; dall’altro lato l’arte, dalle parole alla danza, che serve ad estendere il suo alfabeto emotivo, per una comprensione degli altri e di se stesso, per empatizzare e quindi riconoscere anche il male esterno e il proprio difetto (Mateo riesce a parlare del padre, della ferita verso la madre). Tutto ciò è mostrato in modo abbastanza automatico, senza alcuna sonda introspettiva e molto (troppo) pacatamente, ma comunque sempre con delicatezza e pudore, con un impulso di messinscena che può promettere begli sviluppi in futuro.
Voto della redazione:
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