Recensione di Torneranno i prati | La Grande Guerra di Ermanno Olmi
Recensione di Torneranno i prati di Ermanno Olmi con Claudio Santamaria | Dopo Fango e gloria, un'altra pellicola realizzata in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale fotografata con sensibilità dal grande maestro bergamasco
Liberamente ispirato al racconto La paura di Federico De Roberto, la vicenda di Torneranno i prati si sviluppa durante una delle tante nottate di una trincea sul fronte Nord-Est italiano negli ultimi scontri del 1917 con le truppe austriache. Un tempo storico (“dell'anima” come lo definisce lo stesso regista Olmi), più che narrativo, che vuole cristallizzare, in quelle poche ore di attesa e incertezza più che di battaglia, la “guerra bianca” negli altipiani trentini completamente innevati.
Non c'è, infatti, una vera e propria trama dietro Torneranno i prati; i personaggi che abitano quel rifugio temporaneo dalla morte hanno i nomi dei loro ruoli militari e archetipi: il Maggiore (Claudio Santamaria), il Tenentino (Alessandro Sparuti), il Capitano, il Dimenticato, o il Conducente di mulo. Nella storia ci sono soltanto comandi dall'alto da accettare, pericoli da affrontare, volontari da scegliere per sfidare le linee nemiche; ma qui in fondo non importa l'impresa o il risultato, tutti sappiamo come andrà a finire. Olmi, uno dei più importanti autori italiani, regista per esempio del premiatissimo L'albero degli zoccoli e La leggenda del santo bevitore, ha voluto invece tracciare il suo ritratto simbolico e poetico sull'inutilità della guerra, sulla sofferenza arrecata a migliaia dei giovani arruolati (“non c'era la morte nei nostri sogni”) e sull'importanza della memoria.
Ci è riuscito? In parte, sì. Affidando il racconto alle suggestioni visive e a una fotografia quasi sokuroviana, illuminata dal chiaro di luna, con tenui sfumature di colore che emergono dal bianco e nero naturale degli esterni e dalla monocromia seppiata degli interni, il regista bergamasco restituisce perfettamente l'ambiente glaciale e doloroso della trincea, evitando la cruenza e l'idealizzazione dei combattimenti, delle esplosioni e dei corpi maciullati dei caduti, tipici dei film bellici. Il dolore della guerra è invece suggerito dalla noia dei rituali quotidiani: il rancio, la posta (soprattutto quella che è attesa invano, come da parte del Dimenticato), la sentinella. Proprio con gli occhi della vedetta, ci si affaccia alle immagini più evocative, che contrastano l'umanità distruttiva con la natura, come quella di una volpe spaventata e persa nella neve, o un acero secco, prima promessa di rinascita, poi fatalmente in fiamme.
[Leggi anche: Recensione di Fango e gloria | La Prima Guerra Mondiale a colori]
Dedicato al padre bersagliere del regista, Torneranno i prati cede però nei soliti difetti del cinema italiano, in una sceneggiatura irrilevante ai fini sia narrativi che programmatici e di un'esagerata retorica che preme sulla pietas e l'eroismo mancato dei soldati italiani della Grande Guerra. Quanta, troppa saggezza nelle loro parole, molti dei quali non erano che dei ragazzi inconsapevoli, strappati precocemente all'educazione scolastica e familiare.
L'improvviso sguardo in camera e interpellazione dello spettatore è certamente sprezzante e potente, ma rimane comunque la sensazione che l'intento didattico di troppo tolga spontaneità a una pellicola che potrebbe comunicare il necessario anche solo attraverso le sue immagini e l'ottima colonna sonora del jazzista Paolo Fresu.
Voto della redazione:
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