Recensione di Fantasticherie di un passeggiatore solitario | Fiaba in live action e stop motion
Recensione di Fantasticherie di un passeggiatore solitario | Opera prima del giovane regista Paolo Gaudio, si ispira ai grandi tecnici dell'animazione come Phil Tippett e Roy Harryhausen ma pecca di confusione nelle sequenze nel "mondo reale"
Già premiatissimo all'estero (Grand Prix a La Semaine du Cinéma Fantastique di Nizza), e in Italia (Premio Mario Bava per la Migliore Opera Prima al Fantafestival di Roma), l'esordio del regista Paolo Gaudio è un oggetto filmico strano, la cui forma risponde precisamente alla citazione in apertura dello scrittore statunitense Hunter Thompson (a cui è ispirato Paura e Delirio a Las Vegas): «quando le cose si fanno strane, gli strani diventano professionisti». Quasi commovente per stupore e la dedizione con cui utilizza la combinazione magica tra claymotion e stop motion, non lontano dai risultati degli esperti (da La sposa cadavere a Coraline e la porta magica), ma anche il passo uno ancora più artigianale, o la pixilation, l'animatronica o tecniche di trucco speciali, senza quasi mai ricorrere al digitale, non convince fino in fondo la live action, forse in bilico su una sceneggiatura ingenua e imprecisa, forse vittima di una recitazione forzata e diversi errori tecnici elementari (il doppiaggio).
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D'altronde non è certo il surrealismo di Jan Švankmajer a ispirare Gaudio nel racconto (ma, come lo stesso regista afferma, sono più i lavori hollywoodiani di Burton e Phil Tippett), seppure esso si presti a un'interpretazione introspettiva e filosofica a partire dalla figura del passeggiatore solitario del titolo, il quale richiama sia il flâneur di Baudelaire e Benjamin, che l'opera omonima e incompiuta di Rousseau. La vocazione per i testi inconclusi del protagonista Theo (Lorenzo Monaco) si traduce in un vagare per una Roma deserta e piccole botteghe degli orrori senza riuscire a sfiorare l'allegoria che vorrebbe portare avanti, raggiunta solo in parte nelle sequenze in stop motion. I riferimenti letterari sono tanto urlati quanto vacui, come la stessa Vacuitas a cui va incontro Theo, terra promessa della Fantasticheria n° 23: da Carroll a Flaubert; da Nietzsche a Kafka, da Dostoevskij ad Edgar Allan Poe fino al già citato Rousseau, tutti autori di opere incompiute. La ricerca della fine è il motore dell'azione che non spinge né incuriosisce, se non sul vero finale coerentemente sospeso e significante.
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Ma se i maestri e i loro stimoli rimangono (letteralmente e metaforicamente) soltanto poster appesi alle pareti e non divengono cuore di una trama che sia capace di prendere direzioni originali, rischiano di essere allusioni pretestuose, non trovando nuova voce per rinnovarne l'immaginario. Ed è un peccato, perché la creatività e l'ingegnosità, infantili ma proprio per questo fertili, non mancano e sono pronte per esplodere. Questa volta la cura e l'attenzione eccessive riservate al dipartimento degli effetti speciali e alla loro peculiarità artigianale hanno tolto troppo spazio al resto.
Voto della redazione:
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