Recensione di Suffragette | La Storia al cinema: le battaglie delle donne per il voto politico
Recensione di Suffragette | Nonostante i nomi promettenti del cast, il lavoro della regista inglese Sarah Gavron è una deludente trasposizione della battaglia delle vere suffragette raccontata senza il pathos che contraddistingue la loro storia
Decenni prima del risveglio femminista degli anni sessanta, già a seguito della rivoluzione francese, nel Regno Unito si formavano i primi movimenti per i diritti delle donne, arrivando alla formazione della Società Nazionale per il suffragio femminile (National Union of Women's Suffrage) nel 1987. Esattamente dalle richieste del voto politico prendono il nome le suffragette, che nella Londra del 1912 erano già riot e punk. Il film di Sarah Gavron racconta la Storia delle prime lotte e delle prime conquiste, nonché delle prime prese di coscienza di donne condannate dalla nascita allo sfruttamento lavorativo, allo stupro e alla relegazione domestica.
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Il personaggio della sempre ottima ma qui sprecata Carey Mulligan riassume in sé il cambiamento di prospettiva che ha preteso un futuro diverso: il suo sguardo immerge (o dovrebbe) lo spettatore come parte del movimento, dei suoi dubbi morali, delle sue divisioni, della sua tenacia nel portare avanti la causa. Ma se la Mulligan fa il possibile nel rendere appassionante la sceneggiatura piatta e svogliata di Abi Morgan, già autrice di The Iron Lady e Shame, la visione non offre spunti migliori rispetto alla storia che racconta, priva di qualsiasi approfondimento realmente politico o piega inedita e riflessiva sul presente, trascinandosi faticosamente verso una fine celebrativa.
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La regia sembra soffermarsi ostinatamente su una moltitudine ripetitiva di panni lavati stesi tra i palazzi di una Londra ancora decadente, forse nel tentativo maldestro di rivendicare un posto già acquisito ma invisibile agli occhi terreni degli uomini. Gli altri nomi in cartellone a fianco alla protagonista sembrano inoltre messi a casaccio per attirare qualche allodola: la Bonham Carter sparisce dietro il suo personaggio-fantasma che rende omaggio alla vera Edith Garrud, la prima istruttrice di difesa personale femminile contro gli attacchi della polizia; Brendan Gleeson è un titubante commissario che scivola tra l'autorevolezza spietata e la confusione; infine Meryl Streep, sebbene interpreti un personaggio importante, ovvero la fondatrice e leader del movimento per il diritto di voto Emmeline Pankhurst, appare per un cameo fulmineo di cinque minuti, inutile e fuorviante.
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Suffragette si riduce a una lezione di storia abbozzata, declinata talvolta all'interesse drammatico, talvolta all'ispirazione sociale; ma né i rapporti spezzati tra madri e figli, né le battaglie contro i poteri più sordi riescono ad attirare nella giusta misura l'attenzione a una lotta ancora in corso. Neanche le didascalie finali, che sottolineano la recentissima apertura al voto delle donne in Arabia Saudita soltanto nel 2015, riesce a ricondurre quanto appena visto alla sofferenza secolare, fisica e sociale, per il raggiungimento dell'emancipazione definitiva.
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