Recensione di Stonewall | La storia vera e potente della nascita dei movimenti per i diritti gay del '69 dal cuore di New York non trova forza cinematografica a causa di un adattamento puramente mainstream, che perde la forza politica degli eventi
Direttamente (e inaspettatamente) dal re dei disaster movie d'oltreoceano, Roland Emmerich (Indipendence day, The day after tomorrow, Sotto assedio – White House down), arriva la ricostruzione dei moti di Stonewall, che nel settembre del 1969 avevano dato il via ai movimenti di liberazione della comunità omosessuale in America e poi nel mondo, il tutto da un locale notturno della Christopher Street del quartiere allora bohemienne Greenwich Village. L'occasione era epocale, le premesse offerte su un piatto d'argento: l'eredità della beat generation, il glamour nascosto delle notti malfamate newyorkesi, l'intreccio con la criminalità organizzata, che sfruttava la condizione di vera e propria esclusione dei gay dalla società e dalle famiglie, gli echi del '68, la forza politica del rock di quegli anni, la morte di Judy Garland e il mito del Mago di Oz che si facevano testimoni di un nuovo viaggio di consapevolezza e indipendenza. La strada di allora non era certo di mattoni gialli, così non lo è neanche ciò che doveva essere il film di svolta di Emmerich, tra gli hollywoodiani uno dei più noti attivisti gay del mainstream.
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Stonewall, nonostante solletichi facilmente l'attenzione dello spettatore medio e impreparato (il che non esclude assolutamente che rappresenti la maggior parte del pubblico, anzi) nonché un amorevole interesse verso i suoi protagonisti, si mantiene docile e stucchevole, posizionandosi lontanissimo dalla forza sovversiva e disperata di quegli eventi e quei luoghi. Ed è un peccato perché tra le mani aveva ancora una generazione di omosessuali ancora troppo nell'ombra, completamente diversa dai sostenitori dei lavoratori in Pride o degli attivisti del Milk vansantiano. Purtroppo Stonewall mette al centro un protagonista irreale, di plastica come l'attore che lo interpreta (Jeremy Irvine) affiancandolo a un ben più interessante e virgiliano abitante di Christopher Street (Jonny Beauchamp) ridotto però a una figura vamp macchiettistica di superficiale spessore.
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Non c'è politica in Stonewall, neanche nei tentativi di spezzare finalmente le violenze subite dalle forze autorizzate o di riabilitarne alcune; non vi è traccia dell'atto creativo e ribaltante di una sommossa che prende piede da un semplice nightclub; non vi è lettura, né tanto meno letteratura, e neanche spettacolarizzazione dell'evento, o del suo significato, ridotto a un decimo della durata del film. Vi è solo una patina drammatica e familiare che non aggiunge solennità né memoria alla visione storia del quadro sociale e reale della lotta per i diritti omosessuali, come invece meriterebbe.
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Eppure, con le carte in mano che vi presentavano, poteva essere un'esplosione inimmaginabile di gioia cinematografica: ma se proviamo a pensare come sarebbe andata diversamente, immaginiamoci pure una favola a lieto fine in uno stile tra Palahniuk e Luhrmann, gloriosamente sporca e liminale, spudoratamente pop e controversa, tragicamente vittoriosa e rivoluzionaria
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