Recensione di Carol | Esce finalmente in sala il film che ha ribaltato l'ultima edizione di Cannes e sconvolto la sonnecchiante Festa del Cinema di Roma, splendida conferma del "realismo poetico" di Todd Haynes e delle sue straordinarie interpreti
Grazie al romanzo The price of salt (1952) di Patricia Highsmith, scrittrice particolarmente cara al mondo del cinema dopo l'adattamento del suo primo romanzo Strangers on a train dalle mani di Hitchcock che lo trasformò ne L'altro uomo, Todd Haynes ritorna nell'America degli anni Cinquanta e firma un'opera di impensabile e dimenticata eleganza che affonda le sue radici nel cinema hollywoodiano più classico ma risponde alla contemporanea necessità di ripresa e drammatizzazione di storie trascurate dalla dimensione politica di un tempo.
Come in Antonioni, nel suo Professione: reporter e nell'ultima celebre sequenza, Haynes apre il suo sesto lungometraggio su una grata, trappola della visione e gabbia dello sguardo in uno schema precostituito da un esterno proibito, un pensiero da nascondere e mascherare. Così come in Lontano dal paradiso esso coincideva con la relazione extraconiugale e multirazziale, in Carol è l'amore omosessuale la soglia offuscata dai filtri sociali e visivi che costantemente si pongono davanti e tra le due donne protagoniste. I vetri, i finestrini delle auto bloccano lo sguardo e allo stesso tempo non fanno che spalancarlo a un'altra visione possibile: quella di altri occhi simili e affini nei quali identificarsi. Tramite l'obiettivo della macchina fotografica, l'unico mezzo per mettere a fuoco intenti e sentimenti, l'insicurezza giovane e sognante di Therese si ritroverà nella determinazione disillusa di Carol, madre, insegnante e amante, anche grazie a una struttura circolare che riduce e annulla il tempo diegetico e filmico.
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Ancora una volta nel cinema di Haynes – dopo Safe, lo stesso Lontano dal paradiso e la mini-serie Mildred Pierce – è il corpo della donna a veicolare il cambiamento, come nei maestri dichiarati Douglas Sirk e Rainer Werner Fassbinder, a scardinare autonomamente la direzione della narrazione (il viaggio in macchina) mentre la figura maschile, che non può più guardare da un interno dal quale è stato escluso (le abitazioni, la camera d'albergo), non riesce nemmeno ad ascoltare (si noti il climax centrale) se non si identifica liberamente, senza sostituirsi, nel puro desiderio delle due donne. Perché se il corpo è solo sfiorato, anche la mente rimane inaccessibile e rarefatta: “sto studiando il collegamento tra quello che i personaggi dicono e quello che pensano”, dice uno degli amici di Therese durante una (prima) visione al cinema di Viale del tramonto; la stessa Carol continua a domandarle cosa le passa per la testa (“what are you thinking? I always ask you that”). Ma è esattamente questo scarto a colmare emotivamente il puntinismo dell'immagine granulosa di Carol in un'eclisse esistenziale (ancora antonioniana) che raramente ha risposta o spiegazione.
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A riempire lo spazio lasciato vuoto dalle parole assenti, ci pensano la commovente colonna sonora di Carter Burwell, ma soprattutto l'esemplare e filologica fotografia di Ed Lachman, invocante i lavori di Saul Leiter – oltre i noti Vivian Maier o Edward Hopper – che dalle vetrine bagnate dalla pioggia ritraeva la stessa New York appena embrionale dopo la guerra, dove i colori ricominciano a splendere (tra tutti, il rosso natalizio, il giallo dei taxi) da timidi fasci di luce che coincidono infine con il combattuto risveglio di Carol e Therese. Un risveglio che lentamente si spoglia di quei filtri e riflessi che ne appannano l'urgenza, e finisce con un guardarsi reciproco e diretto: un riconoscersi tra la folla, di qualsiasi contesto storico. Con Carol, di nuovo, sono i piccoli gesti a mettere in moto la macchina del cinema e, di nuovo, gli spettatori sussultano con l'immagine di un paio di guanti dimenticati o di una mano che sfiora una spalla.
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